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Numero 9 del 2012

Futura: Il domani che è tra noi / 1


Foto: Futura: Il domani che è tra noi / 1
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Testi pagina 45

presa in considerazione. La cosa più difficile in tutti que—
sti anni è sempre il far riconoscere il mio lavoro come mu-
sicista, come jazzista. E sicuramente pesa sia l’essere don-
na sia l’essere arpista. Poi ci sono le piccole discrimina—
zioni quotidiane che una donna deve affrontare e a cui tri-
stemente ci siamo tutte abituate.

SECONDO TE E POSSIBILE, ATTRAVERSO LA MUSICA E L'ARTE
IN GENERE, PORTARE AVANTI BATTAGLIE PER LA PARITÀ DEI
DIRITTI E PER L'UGUAGLIANZA DI PERSONE, POPOLI E
GENERI, PROMUOVENDO UN MESSAGGIO UNIVERSALE?

Non è possibile, è doveroso. Almeno dovrebbe esserlo.
Purtroppo non c’è più molto spazio per l’arte e la cultu—
ra e spesso si ha la sensazione di dover usare gli spazi ri-
servati in maniera cauta, senza disturbare troppo. Non è
stato sempre così, mi viene in mente Duke Ellington e il
suo Black, Brown and Beige. Ellington non era uno “mol-
to politicizzato” come Mingus o altri jazzisti attivisti. Ma
quando ha avuto l’opportunità di un concerto prestigio—
so alla Carnegie Hall ha voluto mandare un messaggio ben
chiaro e di largo respiro politico. Una suite sulla storia del-
la cultura afroamericana in pieno tempo di oppressione.
Quanti oggi si trovano nella stessa condizione e preferi-
scono non esporsi troppo?

PARLACI DEI TUOI DISCHI, IN PARTICOLARE DELL'ULTIMO, E
DEI TUOI PROGETTI FUTURI ......

Il primo disco è stato con il NAT trio, formazione anco—
ra esistente (dal 2003) con Elisabetta Lacorte al basso e
Simone Dionigi Pala ai sassofoni. Poi dopo qualche anno
e stato il momento di Trame in arpa sola, un mio perso—
nalissimo percorso tra brani originali miei e di grandi jaz-
zisti italiani come Bruno Tommaso, Enrico Pieranunzi, Ro-
berto Cipelli. Altro passaggio importante è stato Nuan—
ce con Elisabetta Antonini, disco che ci ha dato molte sod-
disfazioni e che esplora le composizioni del jazz europeo
di Kenny Wheeler, Ralph Towner e della musica brasiliana
come Jobim e Guinga. L’ultimo disco è stato un piacevole
incontro con il batterista Massimo Barbiero e il chitarri-
sta Maurizio Brunod, si chiama Kandinsky. Undici trac—
ce con una forte componente di improvvisazione totale.
Un esperimento ben riuscito fortemente voluto da Mas-
simo Barbiero. Nel futuro ci sono tanti progetti. Il pros—
simo è sicuramente la registrazione del duo con l’armo-
nica cromatica di Max De Aloe, i nostri due strumenti “ati-
pici” sono una vera forza. Ci piace suonare insieme, ci di—
vertiamo e questo si sente nella nostra musica. Attingia-
mo da diversi repertori, principalmente jazz e nostri bra-
ni originali, ma anche pop e classica. Suoniamo quel che
ci piace, senza troppi intellettualismi o vincoli estetici, la-
sciando libera espressione alla nostra musicalità.



JOAN BAEZ, VOCE E MITO

Quando sale sul palcoscenico della gremita Cavea Audi-
torium Parco della Musica (Roma), la accoglie un pubblico
entusiasta e commosso. Lei, Joan Baez, vera icona degli
anni Settanta legata al movimento di protesta americano
ed alle tante battaglie in difesa dei diritti civili, compagna
di Bob Dylan e protagonista della kermesse di Woodstock,
si è conquistata un posto nell’Olimpo dei grandi come in-
terprete dalla voce cristallina e leggiadra, riconoscibile fra
milioni di altre. Sarà per questo, per la fama raggiunta già
giovanissima e per l'impegno civile mai venuto meno, che
Joan si presenta al pubblico, ancora oggi, come una splen-
dida settantenne all'insegna della massima semplicità: ve-
stito nero lungo che fascia un corpo asciutto e longilineo,
sciarpa rossa e chitarra acustica al collo. Dopo poco si sfila
i sandali e resta a piedi nudi per l'intero concerto: lei può.
Non c'è trucco, non c'è inganno, solo autentica, bellissima
musica, antica e nuova, senza tempo. Le note di canzoni
famosissime come Farewe/l Ange/ina, Sacco e Vanzetti,
Sweet Iow sweet chariot, Blowing in the Wind, The Boxer,
Diamond and Rust (e tante altre), si mescolano a melodie
popolari come Jari Ya Hammouda dedicata a chi rischia la
vita per la libertà nelle ‘primavere arabe', o alle splendide
Scar/et fide di Elvis Costello e Jerusa/em di Steve Earle, in
alcuni brani accompagnata da un duo di giovani musicisti,
il polistrumentista Dirk Powell e i| percussionista Gabriel
Harris - la sua “megaband” come dice ironicamente Joan
- o duettando in lingua spagnola (Gracias a la vida, La Llo-
rona, Cucurrucucu paloma) con Marianne Aya Omac,
energica cantante e chitarrista francese dalla voce po-
tentissima. Generosa col pubblico romano la Baez, oltre a
leggere in italiano le parti più significative di molti testi
delle canzoni prima di suonarle, è rientrata quattro o cin-
que volte sul palco dopo il primo, classico bis. Insomma, se
non fosse già appaltato, si potrebbe usare per Joan Baez
l'appellativo di 'La Signora’: come lei non ne fabbricano
più, forse per questo sentirla cantare è come tuffarsi a ca-
pofitto nella nostra giovinezza, di chi aveva vent'anni ai
tempi di We Shall Overcome. I| suo sorriso e la sua voce
(che ancora arriva melodiosa, solo a tratti poco più roca di
un tempo) rimarranno per sempre 'giovani', proprio come
gli ideali senza tempo delle canzoni che ci hanno fatto so-
gnare e che anche le nuove generazioni hanno imparato
ad apprezzare.





E. C.

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