Numero 6 del 2014
Cultura e futuro, Addio
Testi pagina 45
39Giugno 2014
dovrei provare. Il punto è il rispetto che secondo gli altri
io dovrei riservare a mio fratello. Il punto è che lui era
malato e secondo gli altri certe cose non vanno rivela-
te”. I panni sporchi si lavano in casa, non fuori. Questo
è il succo. E Paola non ci sta, si arrabbia, si ribella, si
sfinisce, si rialza. Poi decide di fregarsene. “Perché io
a Massimo non ho tolto amore. Non ho inquinato negli
altri il suo ricordo”. Anche per questo ce ne parla, per
squarciare un inutile velo. Eppure si sente ferita da chi
circondava entrambi. “La mia più grande angoscia è
che Massimo implorava i medici che lo hanno soccor-
so di lasciarlo andare. Questo da un lato mi distrugge,
dall’altro mi fa capire che per lui la morte è stata una
liberazione. Prima di andarsene ha scritto un racconto
in cui descriveva i suoi tormenti. Le delusioni lavorati-
ve, sentimentali. Lui voleva renderlo pubblico, quindi
lui non aveva timore del giudizio del mondo”. Paola no-
mina suo fratello ogni volta che può. Certe volte per un
bisogno impetuoso e naturale di affermare la sua pre-
senza, altre volte - forse - per provocazione, per vedere
le reazioni degli interlocutori, per sentirsi rivolgere quel
‘basta Paola’ che è diventato un ritornello. “Perché c’è
questa ipocrisia, questa necessità di non pronunciare
il sostantivo ‘suicidio’? Dove nasce questo fastidio?”.
Paola la risposta se la dà lei stessa. “Quando il dolore
degli altri è troppo grande, è ingestibile, allora bisogna
fare finta di nulla”. La sua riflessione va oltre. “Il suici-
dio non è un problema solo della famiglia, degli ami-
ci, dei cari. È un problema della società. Perché sono
tanti gli interrogativi che rimangono senza soluzione”.
Paola non accusa nessuno, questo lei lo premette e lo
ribadisce, ma il dubbio, quel dubbio che forse l’epilogo
avrebbe potuto essere differente avanza dentro di lei.
“Quando vedo un cane mi chiedo se con un animale
in casa sarebbe stato meglio. Quando vado in monta-
gna mi domando se avrei dovuto insistere per portar-
lo più spesso con me. Quando cucino mi dico che se
fossi stata più accudente, lui …. Poi mi fermo perché
ho coscienza che nulla sarebbe stato mai abbastan-
za”. Paola ha perdonato sia se stessa che Massimo.
Si è conciliata con quella sensazione di sospensione
con cui dovrà presumibilmente continuare a convive-
re. Però quell’istinto di protezione è sempre in allerta.
Emerge quando vede una persona che passeggia sul
cavalcavia guardando un fiume e lei teme stia per com-
piere un atto inconsulto. Affiora di notte, quando sogna
di abbracciare Massimo e si sveglia piangendo perché
non c’è. Irrompe nell’ansia che ha di voler togliere le
sofferenze agli amici. Ma ciò di cui proprio non riesce
a darsi pace è quel senso di profonda solitudine che
l’attanaglia, quell’incapacità di una condivisione che
vada oltre le frasi di rito che lei ormai non tollera più.
“Se parli di amore tutti ti dicono la loro. Se posti su Fa-
cebook la foto di un dolce tutti intervengono. Se scrivo
che mi manca mio fratello, privatamente mi incitano a
smetterla”. Attenuato il dolore, attenuata la colpa, cre-
sce la rabbia. “Perché si può morire di malattia e non di
suicidio? Perché per chi compie questa scelta c’è poca
pietà? Perché fingiamo tutti che il suicidio non esista?
Io voglio urlarlo, perché nelle mie grida c’è l’amore per
mio fratello”. b
DICONO Le statIstIChe
Atto estremo, il suicidio è una delle cause di morte più dif-
ficili da comprendere, interpretare, accertare e certificare.
Inevitabilmente - per la complessità delle situazioni e per il
rispetto dovuto - la sua lettura non può esimersi dal dubbio
e dal mistero, che difficilmente riescono a dissiparsi. Più
che il commento, i dati statistici vanno acquisiti ‘per presa
d’atto’, poiché il suicidio come simbolo e come gesto resta
ambiguo fino alla fine. Fino ai grafici, agli istogrammi, alle
percentuali.
Fra i paesi dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazio-
ne e lo Sviluppo Economico), l’Italia - tra il 1990 e il 2010 -
era uno dei paesi con il più lieve tasso di mortalità suicida.
Negli ultimi quattro anni, l’indice di mortalità per suicidio
sta lentamente salendo anche per via della recessione: da
6,7 suicidi ogni 100mila abitanti (nel 2010) all’8,5 degli ul-
timi due anni.
Le indagini Istat chiariscono che nel Settentrione si riscon-
trano più morti per suicidio rispetto al Meridione; anche se
sia al Sud, sia al Nord il trend permette di rilevare che gli
uomini sono più inclini ad intenzioni suicidarie rispetto alle
donne. D’altro canto, sia i primi che le seconde tentano di
infliggersi la morte con maggiore frequenza se apparten-
gono ai livelli socio-economici più bassi.
Perlopiù, uomini e donne scelgono di morire per impicca-
gione (il 52% circa) o per precipitazione (35% circa). Dal
punto di vista sociologico, tuttavia, le statistiche parlano
chiaro: il suicidio italiano, come in generale il suicidio oc-
cidentale, rientra nell’etichetta di “suicidio anomico” - una
definizione stilata dallo studioso Emile Durkheim. Si tratta
del cosiddetto “suicidio egoista”, causato da un vuoto di
fiducia e da un traumatico allentamento dei legami relazio-
nali e sociali, a causa del quale la vita umana si impoveri-
sce di senso e di ricchezza interiore.
Niente a che vedere, quindi, con il suicidio del kamikaze
orientale: un suicidio invasato, “altruistico” e paradossale
dettato da un fervore religioso e da un rafforzamento del
moralismo religioso e socio-culturale.
Marta Mariani