Numero 3 del 2006
Libera di scegliere. Speciale 60 anni voto alle donne
Testi pagina 42
noidonne marzo 2006
noidonne pag 42
Quando all'inizio di ogni esperienza, ci si dice "Speriamo bene"significa che si èpreparati a veder il lato positivo, che si è pronti a ciò che ancora non è nato "e
anche a non disperarsi se nulla nasce durante la nostra vita"(Fromm): coloro che
hanno o nutrono poca speranza scelgono in genere gli agi o la violenza: coloro che
sperano ardentemente, vedono e amano ogni segno di una nuova vita e sono pron-
ti in ogni momento ad aiutare la nascita di ciò che è già pronto a venire al mondo.
La parola che in ogni rubrica tenderò a proporre sarà dunque una sorta di nume
tutelare, un faro di invito alla riflessione in un mondo in cui oramai si corre trop-
po e in cui spesso si parla a dismisura, fuggendo l'essenziale che è già dentro di noi.
Sarà questa parola un vocabolo di rinnovamento interiore, capace di incidere nel
nostro animo e non soggetto ala consumo immediato di tanta stampa divulgativa.
Si tende a identificare la fine della speranza con l'approssimarsi della morte: in
questo caso, quando diciamo che non ci sono speranze intendiamo dire che ormai
prossima è la fine della vita. In questo modo vita e speranza diventano quasi sino-
nimi, speranza uguale a vita, e , viceversa, fine dell'una uguale a fine dell'altra. Un
atteggiamento comprensibile e, in parte anche vero, ma non del tutto corretto per-
ché semplifica ma non esaurisce il problema. Disperazione e morte non sono sino-
nimi, infatti esiste una morte non disperata. Secondo la Bibbia, infatti, la morte
accettabile senza rimpianti, in qualche modo serena è quella di chi se ne va da que-
sto mondo anziano e sazio di giorni lasciando dietro di sé una discendenza per la
quale può immaginare un futuro normale, forse anche migliore del suo. E' la natu-
ra, è la vita, si dice.
C'è tristezza in questo, malinconia, nostalgia per tutto quanto si ama e si deve
lasciare, ma non disperazione. Ma è raro morire così, la maggior parte di noi se ne
va quando è ben lontana dalla sazietà di vivere; molti sono appena all'inizio o nel
pieno della vita e la loro fine fa precipitare chi li ama in un dolore indicibile, in una
pena che paralizza il cuore, i sensi, lo spirito.
Questo causa dolori incancellabili ma coi quali, piano piano, s'impara a convi-
vere e per quanto con fatica, per quanto diversi per sempre da prima, ci si rimette
in piedi, si continua a vivere, si ricostruisce piano piano un orizzonte di speran-
za,anche se non così piena e luminosa come prima. Si trova sempre qualcuno sul
quale riversare l'amore ferito e la vita ritrova un senso e un nuovo orientamento.
La verità è che per quanto sia duro morire, la morte non è il male più grande, non
basta lei a uccidere davvero la speranza, perché si può morire e stare accanto a chi
muore conservando fiducia nella vita, nel futuro, nel mondo: noi non ci saremo,
ma noi per questo scompariranno l'amore, la bellezza,la gioia, il bene. Si può
affrontare la propria personale tragedia se qualcuno ci sta vicino con solidarietà e
premura: per noi forse non c'è più speranza, ma resta intatta la speranza nell'uo-
mo e per l'umanità.
La minaccia più grande, più pericolosa contro la speranza si nasconde nella sto-
ria, in ciò che accade e coinvolge non il singolo, ma l'umanità o porzioni di essa.
Il dolore personale fa soffrire fino anche a morirne, ma l'attentato più grave è il
dolore storico, collettivo. E non stiamo parlando di un'ipotesi astratta, ma di qual-
cosa che ha già ripetutamente colpito l'umanità, con particolare forza e accani-
mento nel secolo appena finito. Sono ancora in vita molti testimoni che hanno visto
e vissuto eventi possibili solo perché nel cuore di troppi uomini era stata cancella-
ta ogni traccia di umanità. In quelle circostanze- e mi riferisco alle brutalità dei
regimi totalitari di ogni colore e ai tentativi di sterminio contro gli ebrei e altri
popoli come gli armeni, i cambogiani, gli zingari, i tutsu o gli hutu, molti hanno
perso davvero ogni speranza, perché è il male stesso, allora che sembra dominare
la storia, i governi, i popoli, il futuro.
Quando vengono massacrate freddamente, con metodo e quasi senza emozioni
masse di innocenti inermi mentre gli altri non reagiscono e, vinti dal terrore, cer-
cano di convincersi che il massacro è giusto, lecito, almeno utile, è allora che
rischia di scomparire la speranza dal mondo.
(Tratto da HOPE , trimestrale di cultura diretto da CATIA IORI)
È bello ogni tanto fare un tuffo nel pas-sato, soprattutto se la macchina del
tempo viaggia ad alta qualità. E' questo
il caso dell'intramontabile mondo di
Jane Austen, deliziosamente descritto in
Pride and Prejudice, Orgoglio e
Pregiudizio, il suo romanzo di maggior
successo, oggi riportato finalmente sul
grande schermo (senza contare le ver-
sioni per la tv) dopo ben 65 anni, per la
regia del giovane e talentuoso Joe
Wright. La precedente edizione del film
risale nientemeno che al 1940, protago-
nisti eccelsi Laurence Olivier e Greer
Garson. I giovani attori dell'edizione
2005, Keira Knithley e Matthew
Macfayden, fanno del loro meglio per
riportare in vita l'atmosfera del libro e
l'ambientazione della provincia inglese.
Elisabeth, la protagonista del romanzo è
l'esponente dei tempi nuovi, femminile
ma anticonformista, è un'eroina della
Ragione. La Austen, figlia di un pastore
anglicano, aveva ricevuto l'educazione
tipica delle ragazze di buona famiglia
ma ben conosceva anche la povertà ed i
meccanismi sociali della nobiltà deca-
duta e dei matrimoni d'interesse.
Ciononostante la scrittrice colse la forza
significante, affidata alle donne, di far
prevalere libertà e autenticità, delle idee
e degli affetti, in contrasto con l'ipocri-
sia e l'intransigenza perbenista. Il film
(distribuito dalla UIP e prodotto da
Working Title) dipinge bene il contesto
storico in cui si colloca l'azione, ripor-
tando inalterati i dialoghi e la forza
emotiva dei personaggi che hanno reso
famosa la scrittrice in tutto il mondo. Il
cupo e ricco Darcy s'innamorerà della
freschezza, del coraggio e dell'orgoglio
di Elizabeth, mentre lei saprà cogliere il
graduale capovolgimento dei pregiudizi
di lui, nel perseguimento della reciproca
felicità. Un grande Donald Sutherland è
il Signor Bennet, padre illuminato e
colto delle cinque sorelle Bennet, in
balia di una moglie (la grande Brenda
Blethyn) ossessionata dai matrimoni,
unico mezzo mediante il quale le donne
potevano modificare la proprio posizio-
ne sociale ed acquisire ricchezza. A
distanza di quasi duecento anni il
romanzo della Austen mantiene intatta
la sua forza e la sua originalità, carat-
teristiche ben veicolate dal film, candi-
dato a quattro premi Oscar.
La speranzaOrgoglio o Pregiudizio
Parole che contanoA tutto schermo
Catia IoriElisabetta Colla