Numero 9 del 2014
			Medicina di genere
			
							
		
			
		
			
			
							
								
					
Testi pagina 54
					48 Settembre 2014
Il 30 giugno del 2014, all’età di 92 anni, si è spenta a Roma Maria Luisa Spaziani,. Di questo evento 
ha sorpreso il silenzio e la sostanziale 
incuria dei media italiani nei confronti 
di una delle figure più importanti 
del mondo delle lettere a livello 
internazionale. Eppure Spaziani era 
figura notissima, che ha attraversato 
buona parte del Novecento con 
successo editoriale e di pubblico. 
Era approdata a Mondadori nel 1954, 
con “Le acque del sabato”, che nel 
2012 le aveva dedicato un Meridiano, 
a cura di Giancarlo Pontiggia e Paolo 
Lagazzi, il quale, nel raccogliere il 
complesso della produzione poetica, 
ne aveva consacrato l’importanza 
assoluta nel panorama poetico 
contemporaneo. Spaziani ha vissuto 
a Torino dove nacque nel 1922, 
Parigi, Milano dove ebbe modo di 
conoscere e frequentare Montale, 
Messina e infine Roma. Le ‘città’ 
della poetessa sono i territori attorno 
ai quali questa scrittura si agglutina, 
un tessuto urbano che è luogo di 
continue relazioni e scoperte, nel 
quale tuttavia è impossibile radicarsi, 
sempre minato dalla tensione al 
viaggio, alla fuga, allo strappo. La 
poetessa costruisce, libro dopo 
libro, un ‘discorso ininterrotto’, 
acquisendo continui spazi poetici 
senza mai imporre nette cesure, 
nel quale affronta e sviluppa gli 
archetipi fondanti della sua scrittura: 
il viaggio, l’amore, la luna, l’acqua, 
la persistenza vegetale dell’ortica, il 
mare. Quest’ultimo è una scoperta 
improvvisa: nel 1964, la poetessa 
inizia la carriera universitaria alla 
Facoltà di Magistero di Messina. 
L’esperienza luminosa del mare, 
dello Stretto, del Mediterraneo trova 
una sua archetipale definizione ne 
“L’occhio del ciclone” del 1970, un 
testo orfico e naturalistico, ricco di 
inquietudini e vitalistiche ambiguità. 
La continuità nella scrittura di 
Spaziani si manifesta anche a livello 
stilistico, nell’impostare i testi in due 
quartine, ognuna delle quali coincide 
con il compimento di un arco 
sintattico, anche se non mancano 
eccezioni nelle quale i due elementi 
sono legati da enjambement, e 
soprattutto dove la cesura delle 
due strofe si impone come nodo 
psicologico e dialettico nel discorrere 
del testo. Questa struttura non 
subisce modifiche neanche nel 
poema “Giovanna d’Arco” del 
1990, dedicato alle vicende della 
Pulzella D’Orleans, nel quale la 
poetessa ‘salda’ le due quartine 
nella forma popolare dell’ottava. Il 
poema segna uno dei vertici della 
poetessa piemontese, nel quale si 
manifesta la capacità di unire il rigore 
formale e neoclassico alla passione 
esacerbate dell’emozione, e che 
rende questa scrittura fra la migliore 
del Novecento.
I giorni in cui il sangue verso il cielo
sembra salire in gloria. Sono io
il fiume, la foresta, la marea.
Io la montagna, la nube, la radice.
Pantografato l’essere si espande
anche oltre il presente. Un misterioso
lievito mi impasta e trasfigura.
Tu sei con me. Sei me.
MarIa LUISa 
SPazIanI
Nel ceNtro
della poesia
“io sono shahrazad  
a cui fu detto:/ morirai se 
interrompi il discorso”
di Luca Benassi
Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un’eco di mare, e dalle grandi 
volte
scende un corale antico che è fuso alla mia 
voce.
Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l’unico,
il padre, il figlio, l’angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale 
abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.
Prima di entrare nella grande navata,
vivevo lieta, ero contenta di poco.
Ma il tuo fascio di luce, come un’immensa 
spada,
relega nel nulla tutto quanto non sei.
~
Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
Ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
– la meraviglia.
~
Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.
È così perfetta l’attesa (o l’intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza 
della vita?