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Numero 4 del 1952

Noi Donne VII n.4 / Maria Maddalena Rossi racconta Dolores Ibarruri

La copertina dedicata alle protagoniste del Film di Luciano Emmer ”La ragazza di Piazza di Spagna”.
Un artcolo di Maria Maddalena Rossi racconta il gesto molto speciale di Dolores Ibarruri, nota come La Pasionaria, che volle donare a Firmina Marzi,la propria catenina d’oro come riconoscimento per aver raccolte migliaia di firme contro la bomba atomica, e che ancora nel tentativo di sensibilizzare dei generali americani contro la stessa bomba, fermando il loro mezzo, era stata messa sotto la macchina.
Articolo ricco e articolato di Fausata Terni Cialente sul processo alle donne di San Severo, dopo due anni di carcere ingiusto per aver partecipato ad uno sciopero a sostegno della denuncia per la morte di un operaio di Parma essendo state prese nella sede del sindacato e riparatesi a seguito di forti provocazioni fasciste.
La novella “Quando si ama” di O.Henry, la 28° puntata del ”Ritorno sul fiume“ di Lucia Ashley, la prima puntata della “Quinta Strada” di Luciana Peverelli, ”Celestina” è la novella di Silvana Cichi.
L’articolo di Ghita Marchi su “Orrori della società americana”.
La moda che sottolinea nuovi modelli che propongono abiti a giacca .
Anna Maria Ortese inviata a Palermo all’incontro con la delegazione sovietica e racconta l’incredibile successo e le emozioni suscitate dalla presenza dei dirigenti Berezin e Timoviev.
Proseguono i fotogrammi del Film di Jean Paul Le Chanois, alla terza puntata .
Marco Viane recensisce due film sovietici di successo: Un treno va in oriente / Uomini di successo.


Foto: Noi Donne VII n.4 / Maria Maddalena Rossi racconta Dolores Ibarruri
PAGINA 17

Testi pagina 17

Rose a Berezin
Dalla nostra inviata speciale Anna Maria Ortese

“Avremmo voluto offrire rose a Berezin, foglie di quercia a Timoviev, a tutti e due l’ulivo, fasci di foglie d'argento, perchè le appendessero, tornando, alla porta delle loro case”.

Palermo, gennaio
Vorremmo stendere una cronaca dettagliata ed esatta della visita della Delegazione Sovietica a Palermo. ma non ci sembra possibile. Vi sono cose e figure ardenti: solo a distanza di tempo è possibile precisare; o anche subito, a patto di possedere uno spirito indifferente. Come la voce di un mare chiuso tra rocce altissimme, ci suona ancora nell’orecchio il grido di tanta gente, uomini e donne, lavoratrici e dirigenti della Sicilia moderna: «Berezin! Berezin! Berezin!», e rivediamo Berezin e l’altro Delegato, l'anziano Timoviev, come due figure uscite da un sogno. Berezin è alto, grande, diritto, biondo, bellissimo, non si può immaginare figura umana più affascinante e più buona. Timoviev è piccolo, ha una testa poderosa, un volto dall'espressione acuta e attenta, tace volentieri e ascolta lungamente. Avvicinati, ci danno l’immagine di un popolo dove sono presenti tutte le diverse misure della grandezza, da quella politica ed economica, a quella umana e favolosa. Avremmo voluto offrire rose a Berezin, foglie di quercia a Timoviev, a tutti e due l’ulivo, fasci di foglie d’argento perchè le appendessero, tornando, alla porta delle loro case. In quel lontano paese, il sole non splende, forse, come su questo, non brillano gli aranci nè corre il vino dolcissimo, ma gli uomini sono tutti' in piedi, con la dignità che abbiamo visto splendere sulla fronte di Berezin e la forza che allargava quella di Timoviev. Aveva finito da poco di piovere, la sera dell'11, a Palermo; non faceva freddo, si sentiva nel tepore dell'aria la primavera già vicina. Al crepuscolo, era salita sulle banchine del porto una luna rosea, immensa, e il Palazzo Reale e i giardini che lo circondano, n’erano come imbiancati. Gli invitati al ricevimento offerto dall’Assemblea Regionale ai Delegati Sovietici, giungevano a piedi o in macchina, discorrendo animatamente, ma sottovoce. A parte l'importanza politica dell’avvenimento, incuriosiva moltissimo l’arrivo di Berezin, il cui aspetto e fascino si diceva fossero straordinari e non c'era chi non desiderasse vederlo, non fosse altro per il piacere di dichiarare che la realtà era molto al disotto dell’immaginazione.
La grande Sala dei Viceré, chiamata così per i suoi ritratti, e quella Rossa e la Gialla apparivano singolarmente affollate; era un andare su e giù di persone: funzionari dell'Assemblea regionale, onorevoli, uomini eminenti della sinistra siciliana, giornalisti, signore. Quando si sparse la voce che Berezin e Timoviev arrivavano, la folla ondeggiò, si restrinse, fu un corpo solo. Per un momento, non si sentì un fiato, una voce. I due sovietici venivano avanti, con un incedere che già da solo stupiva. Berezin sovrastava con la sua luminosa testa la folla. La sua fronte era come il marmo, i capelli di un biondo scuro, il volto serio, gli occhi di una bontà e serenità indicibili. Una figura simile, credevamo non vivesse più che nell'antica letteratura russa. Così avevamo visto qualche principe, in «Guerra e Pace», ma non con questa forza giovane. questa incantevole semplicità, questo fare tranquillo. La folla gridò qualche cosa, e poi tacque, e tutti eravamo al suo seguito. Nella Sala Rossa, si formò un circolo: il Presidente dell’Assemblea. on. Bonfiglio, avrebbe rivolto un saluto e un ringraziamento dell’Assemblea stessa ai due Delegati, l’on. Berti, che li accompagnava, avrebbe di volta in volta tradotto. Parlò l’on. Bonfiglio, schiettamente partecipe di quanto veniva dicendo, personalmente sensibile. Poi parlò Berezin. Allora, la meraviglia che fino allora ci aveva tenuti fermi, divenne commozione. Indimenticabile voce, potenza e grazia riunite insieme, l’impeto di un leone e la dolcezza di un fanciullo. Gli occhi gli si stringevano, parlando, la fronte si dilatava, il braccio si levava di quando in quando ad accompagnare la parola, in un gesto armonioso, che sembrava scolpito nel bronzo, d’una indicibile forza, sfumata da un amore ch’era la cosa più grande, in lui, il dono più risplendente che egli portava con sè. «Cari amici e compagni, signore... il mio cuore è pieno di una gioia profonda... il popolo sovietico...». Le parole si susseguivano come ondate, non vi era il segno di una preparazione: contenute eppur libere, irruente, maestose, tranquille. Quel giovane non era più, per noi, un delegato e neppure un uomo: un popolo immenso e buono, una moltitudine di uomini e donne estremamente laboriosi e civili, sorgeva dietro di lui; e con esso le città, le opere umane che aveva edificato; e dietro queste città e queste opere scorgevamo la terra su cui era curvo, i fiumi le foreste i monti di questa grande terra verde, che aveva restituita agli uomini tutti. E questo popolo e questa terra, fatti liberi e gentili, erano essi a irraggiare tanta bellezza e amore nel volto di Berezin. Avevamo l'impressione ch’egli fosse un cielo perduto, dimenticato e ritrovato improvvisamente: fosse una stagione nuova, un mondo, una bontà di cui non avevamo mai, nella nostra vita di individui isolati e abbandonati alle proprie forze, al caos d una società pagana, sospettato l’essere. Il silenzio, quando Berezin taceva, era rotto dai nostri respiri. Cortei di sogni ci attraversavano la mente, come nuvole. Alla fine, non vedevamo più bene, e ci accostammo ai vetri di un balcone a cercare Palermo, le sue cupole, i palmizi, il mare, tutto questo antico stregato mondo, questa meraviglia dormente, dove suonava ora una promessa di liberazione, di vita.
Volevamo rivedere Berezin. e l’indomani sera ci trovavamo alla Camera del Lavoro di Palermo. Un forte vento urlava per le scale e dietro le porte, l’illuminazione era debole, ma le voci della folla — tutti i dirigenti dei sindacati, segretari e rappresentanti della Camera del Lavoro della provincia — il fuoco di quegli occhi neri o azzurri nei volti scavati e forti, mettevano caldo e animazione, il senso di una festa straordinaria. La sala dove lo on. Di Vittorio avrebbe presentato i dirigenti dei lavoratori siciliani ai due Delegati sovietici, era semplice, coi muri altissimi, e sulla parete di fondo una vasta bandiera italiana. Si chiacchierò, e a volte cantò, per forse un'ora. Nelle pause, dietro le porte, strisciava il vento, ma noi avevamo caldo, e pensavamo a Berezin, Timoviev, a tutti i nostri compagni, ed eravamo pieni di gioia. E come la sera prima ,ecco levarsi un’onda di respiri e di voci allegre e incantate, ecco, come la luna in una foresta, riapparire Berezin, ecco Timoviev, e il sorriso di Di Vittorio; e la folla nera premere intorno, e gridare parole care, quelle che si dicono alla madre o al figlio, e una contentezza grande invadere tutti. E Berezin, a cui i nostri sguardi erano corsi, era sempre solenne come il più alto degli alberi, ma la sua fronte appariva colorata di emozione, e sembrava cercasse nel suo cuore le parole più semplici, i sorrisi più familiari, e quasi volesse farci dimenticare ciò che appariva ed era. Ci passò davanti e andò a sedersi dietro un tavolo, accanto agli amici italiani e al sovietico. E si aperse il colloquio con la folla, e Berezin sorrideva, quando era muto, con le braccia incrociate e un’espressione pensierosa, fissando gli italiani :e poi parlava, si alzava in piedi e parlava, come un fratello, diceva della lotta del suo popolo, di tutti i popoli sovietici, uniti insieme per la vittoria della dignità umana; e ciò che desideravano il suo popolo e tutti i popoli sovietici: la conquista di un bene, una civiltà universale, il lavoro divenuto solo regalità, la grazia e la bellezza di esistere donato a tutti, la pace in un mondo di uomini sereni, intesi soltanto a domare la natura, le malattie, l’ignoranza, il dolore. E diceva questo con la sua forza enorme, come fosse egli stesso una forza della natura, ma benedetta dall’intelligenza, che permette di comprendere e amare. «Come per noi stessi, vogliamo il bene e la gioia di tutti i popoli: l’italiano. il Francese, l’Inglese, il Teresco, l’Austriaco, i popoli delle due Americhe, tutti i cari popoli della terra!»
«Berezin! Berezin! Berezin!», cominciarono a gridare a queste parole tutti. Un terremoto faceva tremare la sala, e la fronte del Sovietico riceveva in pieno, come un’orizzonte, quella tempesta. Cominciarono, i dirigenti dei sindacati, i segretari e rappresentanti della Camera del Lavoro della provincia, a sfilare davanti al tavolo ,e la mano grande di Berezin stringeva un attimo, vivamente, quelle mani brune. Passarono i minatori di Lercara. Berezin afferrava la mano di tutti come a volervi imprimere la sua forza, il suo calore, il coraggio e l'affetto dei trenta milioni di federati sovietici, che in quel momento rappresentava. «Berezin! Berezin! Berezin!» Il grido si fece canto.
Il vento non fischiava più. Fu portato del vino. A questo punto, non ricordiamo più nulla di preciso. Eravamo felici, felici. felici. Berezin alzò il calice verso di noi. col suo sorriso di fratello. «Non c'è più vento, non c'è più paura», sembrava dicesse, «siamo tutti insieme, siamo vicini. abbiamo una patria sola. Per sempre».

Didascalia
In qualsiasi luogo sì è soffermata la Delegazione sovietica, ovunque le si sono stretti intorno i lavoratori italiani, le mamme, i bambini. Berezin, il rappresentante dei Sindacati Sovietici, è riuscito senza sforzo a comunicare a tutti quelli che hanno avuto occasione di avvicinarlo, il suo fascino di uomo forte, sicuro, rappresentante d’un popolo sereno che ha vinto la natura e l’ignoranza.


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