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Numero 1 del 1952

Noi Donne VII n.1 / Lotte per il nuovo anno: caro vita riarmo e libertà

Maria Antonietta Macciocchi racconta l'arrivo a Genova dall'Urss della nave dell'amicizia Timiria Zev con aiuti per la popolazione del Polesine dopo l'alluvione, la accolgono: Maria Maddalena Rossi (UDI) Giiuseppe Di Vittorio. Giuliana Nenni, Rosetta Longo, Grazia Verenin (Lega Nazionale delle Cooperative) Santi e Bitossi (CGIL); il piccolo Vittorio, vittima dell'alluvione e la cui famiglia ha perduto tutto, riceve un trenino in dono per la befana.
La poesia che Sibilla Alleramo dedica a se stessa bambina "la piccina ch'io ero mi guarda'.
Novella di Renata Ordavo "La fedele"
Novella di Licia Ashlej 'Ritorno dal fiume' (puntata)
Novella di Silvana Cichi 'Il primo viaggio'.
Quarto anniversario della repubblica popolare Rumena: Anna Chiriza,deputata e il suo grande impegno per i bambini di Sibio.
Editoria per i ragazzi, articolo di Luciana Viviani su una proposta di leggedella Democrazia Cristiana che definisce essere contro i piccoli editori democratici 'Una legge con il trucco'.
Giuliana Dal Pozzo firma l'inchiesta' "La tredicesima' sulle aspettative e l'utilizzo da parte delle donne.
Cineromanzo "Achtung banditi!" di Carlo Lizzani (fumetti) con Gina Lollobrigida e Giuliano Montaldo.
Rubrica di cucina:'il concorso che fa gola', il medico in casa.
Le diffonditrici: Maria Sette e Maria Barsotti.
Lucia Solazzo racconta come 'nasce una bambola': artigianato e creativiità.
Le lettrici scrivono a Renata Viganò: le lettrici scrivono alla Redazione.
Moda:capotti e consigli per l'abbigliamento.
Ai bambini calabresi in partenza per Roma con il viaggio organizzato dal'UDI per le vacanze di natale la polizia impendisce la partenza, proteste  e intervento della Procura della Repubblica per consentire la partenza.
Rubriche di cucina,  e critica cinematografica.
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Foto: Noi Donne VII n.1 / Lotte per il nuovo anno: caro vita riarmo e libertà
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Testi pagina 10

Ritorno sul fiume, romanzo di Lucia Ashley

Riassunto delle puntate precedenti

Lida, che si era smarrita da bambina, durante un bombardamento aereo, è stata ritrovata dai suoi ricchissimi ge­nitori, e ha dovuto abbandonare la fa­miglia che l’aveva raccolta e trattata come una figliola: gente molto povera, che vive sulle sponde del Tevere nei baraccamenti degli sfollati, ma a cui la giovanetta si è molto affezionata. La nuova vita le dispiace, è in disaccordo con la mentalità borghese dei genitori e si vede odiata dalla sorellina Dilly, invidiosa e cattiva. Ben presto rim­piange i genitori adottivi. Elisabetta e Stefano, i veri genitori, le impediscono di rivedere la famiglia adottiva, e Ce­sare, un giovane e povero avvocato cui Lida si e segretamente fidanzata. Per salutare il suo ritorno ha luogo una gran festa, durante la quale Lida fa co­noscenza con un nobile romano, che le dimostra simpatia e l'accompagna a vi­sitar la famiglia che l’aveva raccolta». Stefano, saputo questo, la rimprovera.

Venticinquesima puntata
Compatirti...» quella frase ferì mol­to Lida. Provò l’impulso di scap­pare di casa, di andarsene, di non vedere più né suo padre né sua madre. Non voleva essere compati­ta. Poi si vergognò di quel deside­rio: si rammaricò amaramente di non pro­vare affatto i sentimenti che avrebbe do­vuto verso i suoi veri genitori. La voce del sangue era terribilmente stranamente mu­ta. Assomigliava moltissimo alla sua vera mamma, aveva lo stesso colore di capelli, di occhi, la stessa carnagione... eppure… sen­tiva quasi di voler più bene a Iolanda con tutte le sue durezze, i suoi egoismi, la sua aspra tristezza.
—Papà, credo che tu ti faccia molte illusioni a proposito della simpatia di Mau­rizio di Ruvo per me, ha dimostrato un poco di amicizia che io del resto, stento a ricambiare, non soltanto perché lo sento molto lontano da me, ma anche... perché, come tu sai... il mio cuore è già votato ad altra persona.
Una tale ira prese Stefano, che non trovando nulla da ribattere, ebbe un ge­sto di impazienza, e volse le spille alla figlia, senza rivolgerle più la parola.
Quando se ne fu andato, con molta calma Lida andò nell’anticamera e formò il numero dello studio di Cesare.
Il giovane venne all’apparecchio quasi subito. La sua voce era leggermente tur­bata: Ah, — esclamò — finalmente. Credevo proprio tu ti fossi dimenticata di me.
—No, Cesare, sai bene che non sono libera. Perché non hai cercato di veder­mi, tu?
—Lo sai che io non posso, non so­no affatto gradito in casa, e non voglio nemmeno «turbarti e influenzarti» come dice tuo padre.
—Cesare, non dovresti parlarmi cosi. Mi sento tanto infelice...
—Perché? Che cosa è accaduto? — gli domandò con apprensione.
Lida si vergognò a confessare che era tanto infelice lì, tra quella gente, in quel mondo: ebbe paura che Cesare non le credesse, potesse dubitare che recitava una commedia.
— Sono infelice perché stamane... sono andata a trovare i miei... i miei cari (era stata lì per lì per dire, i miei genitori) e ho trovato che con quel denaro non hanno risolto proprio nulla. Tra poco saranno di nuovo nella miseria di prima.
— Lo so, ma avrebbe potuto servire per procurar loro due camere in affitto...
— Non era una grossa somma, e in vece, quello stupido negozietto non ren­derà mai loro nemmeno da mangiare.
— Si, bisognava che pensassi tu a si­stemarli — disse Cesare io non ho abbastanza autorità su di loro: i miei con­sigli hanno giovato poco.
— Non potrebbero cedere quel negoziet­to… che è solo una spelonca con qualche arnese, e trovar la maniera di lasciare la baracca? Ti prego tanto, tanto, Cesare, non abbandonarli... Se potessi starei sempre con loro ma è un tale dispiacere per i miei parenti. Già tremo al pensiero che domani Anita verrà qui da me: ma non ho avuto il coraggio di proibire alla piccina di venire a vedere dove vivo.
— Oggi stesso andrò a trovarli disse Cesare — Cerca di metterti calma, Lida. Non ti ho sentita mai così agitata, sconvolta.
— Sono triste, sono terribilmente tri­ste…— ella disse con un singhiozzo —
Sai che cosa penso di me, qualche volta? Di aver sognato sempre il paradiso, e quan­do finalmente, le porte di quel paradiso mi sono state aperte, mi sono resa conto che non esisteva affatto... Questo è terri­bilmente triste...
— Coraggio, piccola, coraggio — disse Cesare — È soltanto lo sbigottimento dei primi giorni. Poi passerà.
Quando riattaccò il ricevitore, si sentì sollevato, di nuovo lieto! Quei giorni, senza notizie della piccina, erano stati molto duri ed amari per lui e aveva tentato inutilmente di convincersi che era me­glio non vi pensasse più, che la giovinetta era perduta per lui.
Consumò una rapida colazione alla so­lita osteria, dove aveva pranzato una sera, che ora gli sembrava lontanissima, con Pietro e con Lida, e poi prese il tram per recarsi alle baracche.
Veniva così buio presto, ormai, che era bene si affrettasse da quelle parti prima che scendesse il tramonto.
Tutto il campo era ancora in subbuglio per la visita inaspettata di Lida. Tutti sa­pevano che Anita e i fratellini sarebbero andati l’indomani a trovarla nella sua nuova casa, e la notizia aveva fatto scalpo re. Iolanda si affannava a trovare gli indu­menti che occorrevano ai tre piccoli per­ché fossero bene in ordine, presentabili. «Non voglio — diceva — che quei signo­ri che si danno tante arie trovino da ri­dire sui miei ragazzini». Erano tutti so­lidali con lei, per questo e chi trovava un giubbone ino nuovo, chi un paio di calze non troppo rammendate, chi un berretti­no decente.
Ma molti di coloro che facevano questi prestiti, ricattavano quasi subito Iolanda. «Che ne diresti se ci mandassi anche il mio piccino, con Anita e coi fratellini? Non si diverte mai, povera anima. Per lui sarebbe un tale spasso». Iolanda cercava di opporsi, ma alla fine cedette e i ragaz­zini prescelti per accompagnare Anita e i fratelli in quella grande avventura, furo­no tre.
Tutti gli altri parteciparono ai prepa­rativi, in una generale confusione ed ecci­tazione. Mirella, che era una delle piccole che avrebbe accompagnato la sua grande amica Anita, per poco non fu votata alla morte dalla madre zelante, che le verniciò le scarpette con una tintura velenosa che la intossicò ben bene.
In mezzo a tutto quel febbrile combi­nare e parlottare, consigliare e immagina­re, capitò Cesare. Pietro era al lavoro, così fu Iolanda che lo ricevette: ma non si mostrò così espansiva e premurosa co­me le prime volte.
— Che bravo avvocato — esclamò, parlandogli con un po’ di sussiego — è venuto a portarci qualche altro assegno?
— Purtroppo, no, ma non dispero che Lida riesca ad ottenere ancora qualcosa dai suoi genitori, per voi.
Iolanda lo guardò con diffidenza:
— Ha visto la ragazza? — domandò.
— Ci siamo telefonati, mi ha detto del­la sua visita di stamane, qui, e mi ha raccontato che è rimasta molto delusa nel- l’apprendere che non avete ancora potu­to procurarvi una casa.
Questa era una implicita accusa per Iolanda e la donna si risentì:
— Davvero? Eppure le ho spiegato che con trecentomila lire non potevamo com­perare il Viminale. Prima dovevamo al­meno comperare qualcosa da metterci ad­dosso: non si può girare nudi in un bel palazzo. Ma già, — aggiunse con ira — la ragazza ha perso la testa. Basta stare mezz’ora con i ricchi, per mettersi a pen­sare come loro.
— Mi è sembrato che facesse discorsi ragionevoli.
Iolanda disse, di scatto: — A me è sembrato invece che si lasciasse monta­re molto la testa dal ragazzo che le era vicino, e che è probabilmente il suo fidanzato.
Il povero Cesare rimase impassibile, sebbene quella apparente tranquillità gli costasse un grandissimo sforzo.
— Ma... — disse — non mi ha detto che era venuta qui accompagnata da qualcuno.
Di solito, verso le cinque del pomeriggio, Dilly usciva con la sua lucida Topolino per andare a giocare a canasta e a ballare in casa di amici: se non combinava nulla con la «ganga» dei suoi amici, andava dalla sarta e al cinematografo. Stare in casa, sembrava una cosa insopportabile: non le passava mai per la mente di rimanere tran­quilla nella sua stanza a leggere un libro o a fare qualcosa di utile. Anche Elisabetta aveva sempre molti impegni mondani verso quell’ora, impegni a cui lei dava una gran­dissima importanza. Stefano era in ufficio. Così Maria Adelaide sperò molto di esser sola in casa a ricevere coloro che conside­rava i suoi veri fratellini. Verso le tre del pomeriggio andò in cucina e cercò di in­graziarsi la servitù.
— Verranno alcuni miei piccoli amici a trovarmi. — disse — Sarebbe possibile preparare loro un po’ di cioccolata con il pane?
— Cioccolata e pane? — domando scan­dalizzata la cuoca — io ho dato ordine di preparare il thè.
— Ma i miei piccoli amici non hanno mai bevuto thè in vita loro: non credo che lo gradirebbero molto...
La cuoca disse, imbarazzata: — Io ho avuto ordini precisi dalla signora. Vuol di re che farò anche la cioccolata, con qual­che pastarella, qualche dolce. La guardavano tutti con diffidenza. Lei ormai conosceva la servitù delle famiglie borghesi: era come avvelenata dall’ambiente che frequentava.
Verso le quattro e mezza, dopo il sonno pomeridiano, Dilly cominciò a farsi bella: indossò un vestitino assai grazioso, e provò almeno tre o quattro pettinature, prima di essere soddisfatta. E quando sua madre, vestita di una lussuosa pelliccia di visone e con un bizzarro cappellino, andò ad annun­ciarle che andava a fare una «canasta» in casa di amici, Dilly rispose: «Faccio anche io una canasta, ma la faccio in casa: ven­gono Nicky e le sue due cugine. Così siamo in quattro».
Dalla sua camera, poiché la porta era aperta, Maria Adelaide sentì quel discorso e si sentì mancare.
— Potevi far giocare tua sorella — disse la mamma.
Dilly rise sarcasticamente:
— Figurati se «quella» sa giocare a ca­nasta. Non sa nemmeno che cosa sia...
— Maria Adelaide è una ragazza molto intelligente: potete insegnargliela in dieci minuti.
— Lei è intelligente soltanto per leggere opere sociali: figurati se si occupa di co­se tanto frivole — fece con ironia la ragazzina. — Lei è una intellettualoide. E poi non credo che Nicky abbia piacere di giocare con la sua antica domestica...
— Dilly – esclamò con dolore Elisabetta – non smetterai mai di essere cattiva nei riguardi di tua sorella? Che cosa dovrei fare secondo te? Perché non capisci che devi accettare questo, dal destino, come un dono e non come un castigo? Oh, se non fossi già in ritardo avrei tante e tante cose da dirti...
— Perché non la porti mai con te? — disse Dilly.
— Ma noi siamo persone anziane, cara. Maria Adelaide è giovane, deve star coi giovani...
— Giovane? Si comporta come una vec­chia di quarant’anni: una vecchia istitutrice scozzese. Se sta con noi ci fa diventare di pessimo umore.
Lida ascoltava quelle parole ed il cuore le si faceva pesante: ascoltava con ansia, sperando di udire dalla bocca di sua madre una frase che le desse conforto, che l’aiu­tasse ad avvicinarsi a quegli esseri così le­gati a lei e così distanti da lei.
— Quando si è molto sofferto — disse Elisabetta — si invecchia precocemente.
Lida respirò «Sì, mamma — pensò — forse è così... hai ragione». Ma Dilly le rispose con la sua voce stridula:
— Tu credi che sia stata molto infelice dove ha vissuto? Ebbene, cara mamma, io non so che genere di sollazzi trovasse in quella famiglia, ma posso assicurarti che stava molto meglio là che con noi, e che quella famiglia e la vita che conduceva, la tua cara figliola, le rimpiange entrambe.
Maria Adelaide fu lì lì per scattare, per slanciarsi nella stanza della mamma e ribellarsi: ma si frenò in tempo. In fondo, non era vero quello che Dilly diceva?
La mamma rispose: — Oh, sciocchezze! Tu dici cose prive di senso comune; ma adesso non ho tempo di discuterne: sono già in ritardo: divertiti con i tuoi amici e cerca di non fare troppa confusione. Arrivederci a pranzo.
Dunque, Dilly rimaneva in casa. Maria Adelaide si trovò ad affrontare un problema che non aveva immaginato. Ormai era troppo tardi per cercar di avvisare Pietro che non portasse i ragazzini. Alle baracche non c’era telefono. E poi, anche avesse tro­vato un mezzo per avvertirli non ne avreb­be avuto cuore. Immaginava che festa i piccini si erano fatta di quel pomeriggio, in che orgasmo dovevano essere. Deludere i bambini, anche soltanto rimandando ciò che si è loro promesso, è cosa crudelissima.
Fu tentata di telefonare alla signora Margari: malgrado tutto, le sembrava la perso­na più sensibile e più umana che avesse co­nosciuta in quel periodo. Forse avrebbe accettato volentieri che ella portasse in casa i poveri bambini. Si aggrappò al telefono: purtroppo la vecchia signora era uscita.
«Ebbene, non ha importanza — decise coraggiosamente la giovanetta — non sarò così vile davanti a Dilly. Farò entrare i bambini in cucina: non possono darle fa­stidio».
Si mise in vedetta alla finestra della sua stanza.
Gli amici della sorellina arrivarono pri­ma di Pietro. Li vide scendere da una ve­spa: le due ragazze a cavalcioni sul sellino, sguaiatelle e vestite in un modo piuttosto eccentrico, fecero un gran baccano. Nicky le prese sotto braccio, prima di entrare sotto l’andito della casa, e Lida vide che sba­ciucchiò una delle due, proprio come faceva con Dilly.
Sebbene i saloni fossero piuttosto distanti dalla sua camera da letto, il chiasso che fe­cero fu tale che Lida sentì i loro strilli. Finalmente si fece un po’ di silenzio: forse si erano messi finalmente tranquilli intor­no ad un tavolo da gioco.
Proprio in quel momento Lida vide spun­tare nella piazza Pietro, seguito da una vera turba di marmocchi, capitanata da Anita che riconobbe subito per via del paltoncino rosso che le stava tanto lungo, ma che lei portava con grande serietà.
Al primo momento la poverina si sentì sgomenta: aveva invitato i tre fratellini, e invece erano arrivati in dieci o dodici: ma alla fine le venne quasi da ridere, anche per il modo buffo con cui erano paludati, quei poverini. Avevano sfoggiato, per quel­la visita d’occasione, gli indumenti più strani, e, parevano degli affiliati ad una strana setta segreta.
Ella vide che, giunto nel mezzo della piazza, Pietro indicava loro quale fosse la casa, spiegando che li avrebbe aspettati lì seduto nel giardinetto. Facevano tutti in­sieme di sì col capo, molto gravemente, come bravi bambini che ascoltassero la lezione del maestro.
Maria Adelaide corse in cucina: — I miei amici sono arrivati – disse – può preparare loro la cioccolata, qui, in cucina? La cuoca domandò, con tono titubante:


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